12 settembre 2021

Gagliano Giuseppe Il volto oscuro dello Stato. Il caso di Andreotti e di Marcello dell’Utri

Il dispositivo della sentenza della Corte di appello (poche righe) viene letto in pubblica udienza, presenti quindi giudici, pubblici ministeri, segretari, cancellieri, avvocati, giornalisti e pubblico. Forte e alta, nel silenzio di tutti, risuona la parola “commesso” (fino alla primavera 1980) riferita al reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Tutti in quell’aula l’hanno chiaramente udita. Ma pochissimi–allora e in seguito–l’hanno “accettata”. A partire dall’avvocato Giulia Bongiorno, allora difensore di Andreotti, in seguito, come noto, ministro nel primo governo (quello “giallo-verde”) della XVIII legislatura. E così, subito dopo aver ascoltato il dispositivo, eccola esibirsi–in favore di telecamere–in un triplice urlo: “Assolto! Assolto! Assolto!”, in collegamento telefonico col suo cliente. Era l’avvio di una spregiudicata campagna innocentista che ha ingannato la stragrande maggioranza del popolo italiano, in nome del quale le sentenze sono emesse. Un macigno sulle spalle dell’imputato è stato sminuzzato, se non dissolto, a colpi di manipolazioni e insulti al buon senso. Perché la formula “assolto per aver commesso il reato” non esiste in natura. È un ossimoro da capogiro. abbia avuto da ridire, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Andreotti, con una solenne cerimonia patrocinata dal Senato, svoltasi alla presenza della compiaciuta presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati (gennaio 2019). Andreotti è stato poi commemorato anche nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles, officiante Pier Ferdinando Casini (marzo 2019). Rifiutando anche solo di riflettere su come attivare gli anticorpi perché non si riproduca il malvezzo di una politica che abbia rapporti organici col malaffare, mafia compresa. L’omicidio Mattarella ci riporta al processo Andreotti. Del dispositivo che parla di reato “commesso” fino alla primavera 1980 già abbiamo detto. Ma vogliamo aggiungere due paginette–due sole delle circa 1.500 complessive–della motivazione della sentenza della Corte di appello di Palermo (definitivamente confermata in Cassazione), dove si esplicita come sia “concretamente ravvisabile” a carico dell’imputato “il reato di partecipazione alla associazione per delinquere”, per avere, “non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale [Cosa nostra] ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo”, dando “segni autentici–e non meramente fittizi–di amichevole disponibilità, [...] inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale” . Le prove del reato “commesso” sono sicure e riscontrate. Confermano decisivi elementi dell’impianto accusatorio e in particolare due incontri in Sicilia del senatore (accompagnato da Salvo Lima “e dai cugini Antonino e Ignazio Salvo) con Stefano Bontate e altri mafiosi di rango, come Salvatore (Totuccio) Inzerillo. Ricordiamo che Bontate era al vertice di Cosa nostra negli anni ’70; insieme a Luciano Leggio e Gaetano Badalamenti fece poi parte del “triumvirato” incaricato di riorganizzare l’associazione criminale. Era tra coloro che fecero entrare Cosa nostra nel business del traffico internazionale di droga. Fu ucciso nel 1981 da due sicari agli ordini di Riina. Inzerillo, invece, era parente del mafioso Rosario Spatola e cugino del boss Carlo Gambino, capo dell’omonima famiglia mafiosa di Brooklyn. Ancora giovanissimo, fu affiliato nella famiglia palermitana di Passo di Rigano, di cui divenne capo nel 1978, venendo nominato anche capo-mandamento. Inzerillo instaurò ottimi rapporti personali e d’affari con Bontate, con cui gestì un ingente traffico di eroina verso gli Stati Uniti, in collegamento con i cugini Gambino. Come è del tutto evidente, i mafiosi incontrati da Andreotti non erano di certo figure secondarie. Nei due incontri si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella: il primo doveva servire a risolvere “amichevolmente” la questione; nel secondo Andreotti volle chiedere conto dell’omicidio e ricevette da Bontate una risposta sprezzante. La sentenza sottolinea che l’imputato avrebbe potuto offrire (in dipendenza dei due incontri) utilissimi elementi di conoscenza in ordine all’omicidio Mattarella, ma non ha mai denunziato le responsabilità dei mafiosi.La vicenda prova anche come il piombo mafioso giunga solo alla fine di trattative fallite. In questo caso, la soluzione cruenta adottata sortisce l’obiettivo politico di un ricambio: al posto del “problematico” Mattarella, alla presidenza della regione siciliana sale l’onorevole Mario D’Acquisto, altro componente di vertice della “corrente andreottiana. Come si vede, Bontate vince, ma gli andreottiani non perdono.Il poli-partito della mafia Oltre al verdetto di colpevolezza per collusione con Cosa nostra fino al 1980, un altro macigno emergente dal processo che pesa sulle spalle dell’imputato Andreotti (fin dalla sentenza “assolutoria” di primo grado) è l’esistenza del cosiddetto “poli-partito della mafia”, con cui Carlo Alberto Dalla Chiesa–in un colloquio con Giovanni Spadolini in occasione della sua nomina a prefetto di Palermo (6 aprile 1982)–indicava la compenetrazione illecita fra Cosa nostra e alcuni settori “legali” operanti sul piano politico-amministrativo-imprenditoriale. Andreotti era dentro il “poli-partito”. Chi fossero i suoi componenti e come interagire con loro Andreotti lo sapeva benissimo, e il processo lo conferma punto per punto, con riferimento ai cugini Salvo, a Vito Ciancimino, a Michele Sindona, a Salvo Lima, e in generale ai rapporti della corrente andreottiana della Democrazia cristiana in Sicilia con Cosa nostra. Il processo ha così fatto emergere un ingente ammontare di informazioni sulla “criminalità dei potenti”, cioè sulle modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere nel corso di decenni. Ha affrontato–e cercato di decifrare–i nodi del cosiddetto patto di scambio politico-mafioso, che comprende le relazioni pericolose tra mafia-imprenditoria-economia-finanza-affari (con particolare attenzione all’aggiustamento dei processi). La posta in gioco nel processo Andreotti era dunque enorme, soprattutto per le ricadute, oltre che sui diretti protagonisti delle vicende processuali, sull’immagine (e sugli interessi non sempre confessabili) della politica italiana. Per meglio inquadrare tale lettura in parallelo, ricordiamo che nel processo a Dell’Utri è stato contestato il reato di concorso esterno in associazione per delinquere (fino al 28 settembre 1982), e quindi il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (dal 29 settembre 1982 in poi). Con sentenza definitiva (9 maggio 2014) l’imputato è stato condannato a sette anni di reclusione per i fatti commessi nel periodo 1974-92. Dal processo risulta che Dell’Utri–nell’ambito di una più generale politica di “scambio di favori” tra Cosa nostra ed esponenti del mondo economico e politico–era stato un canale di collegamento con l’organizzazione criminale, mediante contatti diretti e personali con vari esponenti di spicco di Cosa nostra (fra gli altri Stefano Bontate). Verso la metà degli anni ’70 aveva intrapreso un’attività di “mediazione” tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi (denaro in cambio della garanzia che la mafia si sarebbe astenuta da atti lesivi nei confronti suoi e dei propri familiari). A suggello di questo accordo, Dell’Utri si era adoperato per far assumere Vittorio Mangano–” uomo d’onore” della famiglia di Porta Nuova–come “stalliere” presso la villa di Arcore di Berlusconi, peraltro sprovvista di stalla o scuderia. Negli anni ’80 la “mediazione” di Dell’Utri collegò Cosa nostra e la Fininvest, fornendo all’azienda milanese “protezione” per le antenne televisive che dovevano essere installate in Sicilia. All’inizio degli anni ’90 è provata un’altra “mediazione” di Dell’Utri per risolvere i “problemi” sorti dopo alcuni attentati della mafia catanese contro un magazzino della Standa di Catania. In generale, Dell’Utri offriva a Cosa nostra l’opportunità di entrare in contatto con importanti ambienti della politica, dell’economia, della finanza e della massoneria: con evidenti vantaggi relazionali per i boss e i loro affari illeciti. Dell’Utri ha così contribuito a innescare un circuito che avrà il suo sbocco nella “nuova” mafia, quella che si nasconde dietro consigli di amministrazione, holding, fondi internazionali e società di consulenza. Oltre che, more solito, dietro il paravento formale di una parte della politica e delle istituzioni. Gli stretti collegamenti intrattenuti da Dell’Utri con la mafia, finalizzati a rapporti di scambio con Silvio Berlusconi, sarebbero cessati nel periodo successivo alla “discesa in campo” di questi. Vale a dire che non avevano più riguardato il Berlusconi politico. Peraltro, nel processo si afferma che Cosa nostra divenne nel 1994 una convinta e compatta sostenitrice di Forza Italia: “può dunque ritenersi che tra la fine del 1993 ed i primi mesi del 1994, in concomitanza con la nascita del partito politico di Forza Italia, voluto da Silvio Berlusconi e creato con il determinante contributo organizzativo di Marcello Dell’Utri, all’interno di Cosa nostra maturò diffusamente la decisione di votare per la nuova formazione, così come confermato da tutti i collaboratori di giustizia esaminati al riguardo Citazioni tratte dal saggio Stato illegale: Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi by Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte,Laterza

 
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