5 settembre 2021
Gagliano Giuseppe Note storiche sulla camorra
Se non è possibile provare un’alleanza strategica tra polizia e camorra a danno degli oppositori politici, esistono invece documenti e rapporti dei ministeri borbonici che attestano la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli. Si pagavano stabilmente cospicue tangenti ai commissari di molti quartieri per l’esercizio di ogni attività commerciale. Le singole guardie provvedevano in proprio a raccogliere denaro da ogni negozio. Si vendevano permessi di vario genere, come per l’apertura domenicale di caffetterie e cantine. Ed era notevole l’attività svolta dalla polizia nei tradizionali settori della prostituzione e del gioco d’azzardo. In tal modo la pessima amministrazione di questo settore basilare del regime forniva un preciso paradigma operativo per la già esperta e attiva organizzazione camorristica; che si occupava di sovrintendere all’ordine nelle prigioni, nei mercati, nei bordelli, nelle bische. “Il delicato problema di impedire devastazioni e saccheggi operati da masse plebee e da consorterie criminali era stato risolto, subito dopo i tumulti di fine giugno e la proclamazione dello stato d’assedio seguito al ferimento dell’ambasciatore francese. Il nuovo prefetto di polizia Liborio Romano invitò a casa sua il capo della camorra Tore ’e Criscienzo e gli propose di trasformare i capicamorra in commissari e ispettori di polizia e i picciotti in guardie cittadine. «Pensai–scrisse poi nelle memorie–di prevenire le triste opere dei camorristi offrendo ai più influenti loro capi un mezzo di riabilitarsi; “e così parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze, in quel momento in cui mancavami ogni forza, non che a reprimerle, a contenerle». I criminali, invece che guidare i tumulti e i saccheggi, com’era accaduto altre volte, specie nel maggio 1848, si trasformavano in tutori dell’ordine pubblico. In mancanza di divise, i camorristi si armarono di un nodoso bastone e attaccarono al berretto una coccarda tricolore. Erano diventati guardie cittadine, ricevendo una legittimazione che seppero subito come far fruttare. Anche Monnier considerò questa scelta necessitata da forza maggiore. L’antica polizia era scomparsa; la Guardia Nazionale non esisteva ancora, la città era in balìa di sé medesima, e la canaglia sanfedista in aspettativa di un nuovo 15 maggio si preparava al saccheggio; aveva già preso in affitto delle botteghe (garantisco questo fatto) per deporvi il bottino. Trattavasi di salvar Napoli, e Don Liborio Romano non sapeva più a qual santo raccomandarsi. Un generale borbonico lo consigliò ad imitare l’antico governo e (riproduco testualmente la frase) «a far ciò che esso faceva in caso di pericolo». Don Liborio chiese alcune spiegazioni e seguì il consiglio del generale. Si gettò in braccio ai camorristi. Ai primi di luglio diventarono commissari e ispettori di polizia alcuni capicamorra, che avevano guidato i disordini nei giorni precedenti: insieme a De Crescenzo, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano. Pochi giorni dopo Liborio Romano diventò ministro dell’Interno e completò il nuovo organico della polizia, immettendovi i capicamorra dei restanti quartieri col grado di commissari e ispettori, e nominando agenti una massa di picciotti di sgarro. La «procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province infette», nota come “legge Pica”, fu così approvata dal Parlamento il 15 agosto 1863. Il governo ebbe la «facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, nonché ai camorristi e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re e di due Consiglieri Provinciali». La legge eccezionale fu estesa dal brigantaggio alla camorra, perché questa venne considerata come un potere parallelo e alternativo rispetto alla sovranità dello Stato, sia sul terreno del monopolio monopolio della violenza e dell’ordine sociale, che sul piano dell’amministrazione di essenziali funzioni statali: la tutela dell’ordine pubblico e della convivenza civile, l’esazione dei tributi fiscali. resta senza verun dubbio dimostrata l’esistenza della Camorra organizzata in associazione, avente grado di gerarchia tra gli affiliati, corrispondenze e relazioni estese ai carcerati delle più lontane province, funzionando la setta come un sanguinoso sistema penale rappresentato da uomini, da giudizi e da pene inflitte ed eseguite dagli appartenenti alla stessa setta sia a difesa e propagazione nel mezzo della società del criminoso sodalizio, sia per feroci castighi alle volute violazioni degli statuti della Camorra. L’affermazione del carattere associativo e organizzato della camorra costituiva un punto molto importante. La cultura giuridica liberale aveva in gran sospetto il reato associativo: sia per la sua prevalente applicazione ai delitti di associazione e cospirazione politica, sia per il rischio di punire come reati penali anche gli atti solo “preparatori” di progetti non portati a compimento. I problemi non sorgevano nella valutazione di un concreto reato che, una volta accertato, veniva aggravato dall’esistenza dell’associazione criminosa. Ma risultavano di difficile soluzione quando l’imputato non era accusato di aver compiuto un reato determinato, oltre quello di associazione criminosa. Nel primo decennio unitario fu la camorra napoletana, e non la mafia siciliana, l’oggetto privilegiato di una continua azione repressiva dello Stato, che trovò un preciso fondamento giuridico prima nella legge eccezionale del 15 agosto 1863 e poi nella “legge Crispi” del 17 maggio 1866 che, per le esigenze poste dalla guerra con l’Austria, assegnava al governo «poteri eccezionali per provvedere alla sicurezza interna dello Stato . “Più della metà degli impiegati della segreteria del Comune di Napoli erano privi di qualsiasi titolo di studio. Non solo: a dimostrazione dell’arbitrarietà dei criteri di nomina, risultavano 65 funzionari sforniti di qualsiasi titolo nella superiore categoria di concetto; mentre erano assegnati alla inferiore categoria d’ordine 12 laureati e 15 diplomati. Un impiegato, Giuseppe Cautalano, era stato assunto a 13 anni; mentre un altro, Carlo Bertolini, aveva dovuto compierne 50. Un ex impiegato che s’era dimesso, Biagio De Benedictis, era stato riassunto in servizio a 65 anni. Corruzione e clientelismo erano le caratteristiche fondanti l’organizzazione interna della macchina comunale, che risalivano nel tempo, ma risultavano accentuate in questo scorcio di secolo. Montagne di raccomandazioni e di segnalazioni personali, verbali di concorso manomessi con manipolazioni anche dei punteggi attestano, oltre ogni misura, le correnti pratiche corruttive a favore di clienti e parenti. Favoritismi continui nei confronti degli impiegati fedeli e attivi sul terreno elettorale; isolamento e vessazioni per i funzionari che si limitavano a svolgere con zelo e competenza il loro lavoro. Nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento erano notevolmente aumentati impiegati che normalmente visitano l’ufficio solo il 27 del mese per ritirarvi lo stipendio e che pure non hanno mai avuto molestia; altri che fruiscono annualmente di due, tre ed anche più mesi di licenza e che figurano “poi tra i primi nell’elenco dei gratificati per lavori straordinari. Segretari capi d’ufficio e vice-segretari, che cumulano due o tre impieghi, che sono continuo oggetto di reclami da parte del pubblico o dei creditori, che hanno perso ogni dignità e prestigio di fronte ai dipendenti e che pure, non solo continuano ad essere tenuti in servizio, ma pei favori resi, per la loro abilità speciale in materia elettorale o per altre ragioni, sono favoriti nei traslochi da uno ad altro Ufficio, godono di assegni speciali, sono lodati e difesi contro ogni attacco. La potente Associazione degli impiegati comunali di Napoli, che raccoglieva oltre trecento soci, era stata costituita per il mutuo soccorso, malamente evolutosi nella costante acquisizione di consistenti e diffusi privilegi corporativi e nella distribuzione di favori personali e assunzioni familiari. Lo scambio prevedeva quindi l’appoggio elettorale assicurato dai solerti impiegati all’amministrazione . Una analisi acuta della debolezza etico-politica, prima ancora che economico-sociale, della situazione napoletana al principio del Novecento fu compiuta da Francesco Saverio Nitti: Alla respectability napoletana aggiunge qualche cosa il non occuparsi di politica, per tradizioni borboniche durate fino ad ora. [...] Il problema di Napoli non è dunque soltanto economico, ma sopra tutto morale: ed è l’ambiente morale che impedisce qualsiasi trasformazione economica [...] Al Governo fa assai comodo date le instabili vicende della politica, di avere una base solida; così tutti i Governi lavorano il Mezzogiorno e lasciano fare [...] il Governo lavora. Lavora chiudendo gli occhi sui furti, spesso determinandoli, fomentando la corruzione, mantenendo impunite colpe chiare e patenti. Si può dire in tutta onestà che a Napoli il più grande e il più pericoloso camorrista sia sempre stato il Governo. Come nel 1900 il processo Casale, così nel 1907 il processo Cuocolo fornirà l’occasione per una ulteriore denuncia del carattere clientelare e del sostrato camorristico che caratterizza ampiamente l’attività politica e amministrativa nella metropoli in via di ammodernamento industriale e nel vastissimo hinterland agricolo della Terra di Lavoro. Sotto tiro finirà il ruolo di passiva acquiescenza, quando non di connivenza e di stimolo, svolto dal governo nelle sue responsabilità ministeriali e attraverso i suoi organi periferici. L’attacco più duro sarà condotto contro il deputato giolittiano Peppuccio Romano, definito alla Camera, dal socialista Oddino Morgari, «il maggiore esponente delle camorre di Terra di Lavoro». Già grande elettore di Rosano ad Aversa, il deputato di Sessa Aurunca favorirà quindi l’elezione, sempre ad Aversa, di Carlo Schanzer, cui era stata affidata dal governo l’inchiesta amministrativa su Palermo quando a Napoli era stato inviato Saredo. Qualche tempo dopo il prefetto della provincia di Caserta, che ancora si estendeva fino a Sora e a Gaeta, non potrà che confermare, in una relazione riservata al ministero, che nell’agro aversano (e quindi nel collegio elettorale) «è innegabile l’esistenza della malavita organizzata in camorra, la quale secondo i vecchi sistemi di lotte elettorali di queste contrade, viene assoldata da’ partiti per essere spalleggiati e per guadagnare terreno coi mezzi più riprovevoli e riprovati». Siamo nel 1907. Bisognerà attendere le elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio universale maschile, perché il governo giolittiano prenda definitivamente le distanze da Peppuccio Romano. L’impareggiabile Scarfoglio, memore dei tempi di Rosano, esalterà ancora la «devozione canina» e lo «zelo leonino» che avevano materiato il lealismo giolittiano di questo «legionario romano» dalle «braccia coperte di cicatrici». Questo irresistibile peana non fermerà però l’azione della Prefettura casertana contro il politico-camorrista. Nel collegio di Aversa si raddoppiavano i contingenti di carabinieri e poliziotti, si aggiungevano quaranta guardie di finanza, veniva impiegata anche la cavalleria. Lo Stato, attestava il prefetto a Giolitti, era entrato in guerra contro l’onorevole che si appoggia alla malavita locale e la sostiene vigorosamente traendo in gran parte da essa la sua forza elettorale. Perciò è grato alle figure principali di essa; perciò si adopera in ogni contingenza in favore loro. Non appena esse hanno a rendere qualche conto alla giustizia, egli si pone in prima linea per difenderle recandosi personalmente nelle Aule del Tribunale e mostrandosi apertamente ai Magistrati compiacenti con la veste di fautore e di patrocinatore, sostenuto a sua volta da numerosi affigliati alla malavita. Il marchese Gerardo Capece Minutolo, che era già prevalso di stretta misura nelle elezioni del 1909, stavolta trionfava con oltre 5000 voti rispetto ai 371 rimasti a Peppuccio Romano. Ma non era stato solo il governo ad abbandonare il suo antico sostenitore. Anche la malavita era accorsa, con armi e bagagli, a sostegno del vincitore. «La regione aversana è tale–commentava lo sconsolato prefetto–, per cui l’intromettersi ovunque di certa gente appare fatalmente inevitabile». Intanto a Napoli, in concomitanza e sull’onda del processo Cuocolo, veniva rilanciata l’attenzione e proposta un’analisi dei caratteri e dei processi evolutivi del fenomeno camorristico. Il dirigente sindacale e giornalista della «Propaganda» e poi dell’« Avanti!» Eugenio Guarino sottolineava la persistenza e l’aggiornamento dell’antica associazione delinquenziale, che ora pareva assumere la forma di una «immensa piovra», i cui tentacoli si estendevano per tutta la città. Veniva indicata anche una serie di «puntelli della camorra»: i legami con la polizia, specie per il controllo del mercato elettorale; la tolleranza della magistratura e, soprattutto, delle autorità religiose che tanto peso avevano nella città; l’assuefazione della pubblica opinione allo spettacolo di istituzioni conniventi con la delinquenza. Il marchese Gerardo Capece Minutolo, che era già prevalso di stretta misura nelle elezioni del 1909, stavolta trionfava con oltre 5000 voti rispetto ai 371 rimasti a Peppuccio Romano. Ma non era stato solo il governo ad abbandonare il suo antico sostenitore. Anche la malavita era accorsa, con armi e bagagli, a sostegno del vincitore. «La regione aversana è tale–commentava lo sconsolato prefetto–, per cui l’intromettersi ovunque di certa gente appare fatalmente inevitabile». Intanto a Napoli, in concomitanza e sull’onda del processo Cuocolo, veniva rilanciata l’attenzione e proposta un’analisi dei caratteri e dei processi evolutivi del fenomeno camorristico. Il dirigente sindacale e giornalista della «Propaganda» e poi dell’« Avanti!» Eugenio Guarino sottolineava la persistenza e l’aggiornamento dell’antica associazione delinquenziale, che ora pareva assumere la forma di una «immensa piovra», i cui tentacoli si estendevano per tutta la città. Veniva indicata anche una serie di «puntelli della camorra»: i legami con la polizia, specie per il controllo del mercato elettorale; la tolleranza della magistratura e, soprattutto, delle autorità religiose che tanto peso avevano nella città; l’assuefazione della pubblica opinione allo spettacolo di istituzioni conniventi con la delinquenza. Nel 1908 sarà un funzionario di polizia, Eugenio De Cosa, a disegnare un articolato profilo di questi aggiornati criminali: Il camorrista moderno conosce anticipatamente a chi verrà aggiudicato l’appalto di questa o di quella amministrazione, regola la vendita dell’asta pubblica, ne svia le maggiori offerte, concerta e mena a termine questue e feste di beneficenza da cui detrae lauta sua spettanza. Egli inizia e “protegge” case da gioco e di prostituzione prestandosi a fornire i capitali che gli vengono poi resi quintuplicati, dispone della servitù di tutto il quartiere, ed in caso di elezioni, per logica conseguenza, di 100 o 200 voti, secondo la sua importanza e secondo gli anni della sua carriera. Il camorrista moderno conosce ed è conosciuto da tutte le Autorità locali; qualche volta è nominato “notabile” municipale del quartiere, e mercé le sue raccomandazioni, gli abitanti del rione ottengono dei favori, delle concessioni. Gennaro Cuocolo era un rinomato basista di furti di appartamenti, pur discendendo da commercianti di pellami; sua moglie Maria Cutinelli veniva dalla prostituzione. Lui fu ammazzato sulla spiaggia di Torre del Greco; lei, poche ore dopo, nella nuova casa di via Nardones, tra via Toledo e i Quartieri spagnoli. Era, quasi certamente, una storia di sgarro. Il basista s’era appropriato della parte spettante ai ladri finiti in carcere, che poi s’erano vendicati. La vicenda fu complicata dal fatto che sulla stessa spiaggia, in una trattoria, si trovavano autorevoli camorristi. Anzitutto c’era il caposocietà di Vicaria e aspirante capintesta Enrico Alfano, detto Erricone, arricchitosi nei traffici di cavalli. C’era poi il professore Giovanni Rapi, molto attivo in un Circolo del Mezzogiorno, ben frequentato da nobili e borghesi, situato a piazza San Ferdinando, vicino al teatro San Carlo, che in sostanza era una bisca. C’era anche un prete, don Ciro Vittozzi, cappellano del cimitero di Poggioreale, “molto legato ai camorristi. Insieme ad altri, questi egregi soggetti avevano fornito nel 1904 più di una mano alla prefettura di Tommaso Tittoni per la non rielezione di Ciccotti. Tra arresti e scarcerazioni, s’era fatta strada l’ipotesi di un chiarimento–tra ladri, basista e capicamorra–finito male, che aveva comportato la conseguente eliminazione della donna, in quanto scomoda testimone. La storia ebbe però una svolta clamorosa quando il capitano dei Reali Carabinieri Carlo Fabroni accusò la Questura d’aver fatto scarcerare i camorristi, per vecchie e nuove connivenze, e volle riprendere le indagini, affidate già alla magistratura, peraltro spaccata al suo interno e soggetta a molteplici pressioni. Il baldanzoso capitano trovò presto un collaboratore prezzolato, Gennaro Abbatemaggio, che vent’anni dopo avrebbe ritrattato tutto. Ma intanto adempiva al ruolo decisivo di fornire false dichiarazioni e prove artefatte, che muovevano da una immaginaria sentenza del presunto Tribunale della camorra, riunito naturalmente a pranzo, ma stavolta in una trattoria di Bagnoli. I delitti erano accortamente affibbiati a un gruppo ristretto di eminenti camorristi. Soprattutto, però–con l’invenzione di riunioni, tribunali e sentenze–si allargava fin dove si voleva l’applicazione del reato di associazione a delinquere. Si potevano così colpire e togliere dalla circolazione alcuni soggetti cospicui di quella “camorra elegante” che coi delitti non aveva niente a che spartire, ma in compenso aveva avuto l’ardire di spartire (o anche millantare) troppo con la crème de la crème della società napoletana, augustamente rappresentata da Sua Altezza Reale Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, da qualche tempo residente nel palazzo reale di Capodimonte. Tra i problemi che assillano l’ex capitale c’è anche il rapporto contraddittorio che per lo più vede marciare su binari paralleli gli ordinamenti istituzionali e la peculiare forma di ordine popolare almeno parzialmente assicurato dall’organizzazione camorristica. Man mano che si procede verso il più liberale primo Novecento italiano, aumentano, come s’è visto, le occasioni d’incontro e di collaborazione tra aggregati politici, economici, amministrativi, camorristici anche nella Napoli clerico-moderata e massonico-clientelare. La relativa espansione economica, congiunta a una asfittica iniziativa politico-amministrativa delle locali classi dominanti (più che dirigenti), comporterà anche l’allargamento dei circuiti economici illegali. Il che promuoverà una più diffusa presenza dei delinquenti arricchitisi coi nuovi traffici e affari dentro il centro elegante della bella città. Il consolidamento e l’espansione delle organizzazioni criminali negli anni ’80 sono connessi alla diffusione di comportamenti illegittimi e illegali nella forma e nella sostanza della direzione politica esercitata principalmente dai poteri locali. La criminalità mafiosa e camorristica trae forza e legittimazione dalle forme di illegalità diffusa nella gestione del potere qual è prevalentemente esercitata in numerose regioni e in molti comuni del Sud. Anzi, il controllo dei cospicui flussi di spesa pubblica decentrata ha determinato la formazione di un nuovo ceto di mediatori politici–formato da amministratori locali e rappresentanti di enti pubblici–largamente permeabile alle pressioni di gruppi criminali impegnati ad espandere con l’inserimento nel vasto mercato degli appalti pubblici la potenza economica conseguita attraverso il narcotraffico e altre attività illegali. “In questo contesto più ampio va collocato l’enorme incremento di ricchezza e di potere delle organizzazioni criminali, che controllano larga parte del territorio meridionale, con la connivenza di consistenti parti delle istituzioni e della società. Si consolida ed estende un modello di spartizione allargata, che produce una miscela micidiale di traffici e affari legali e illegali, interessi economici, sostegni elettorali, attività criminali, provvedimenti legislativi e giudiziari. Il forte incremento della spesa pubblica per la ricostruzione postsismica, deviata dalle abitazioni alle grandi opere infrastrutturali a partire dal 1983, trasforma la Campania nel luogo privilegiato di intrecci fra clan criminali in ascesa, potentati politici, amministrazioni locali, grosse imprese edili. Qui si recò nel marzo 1993 una delegazione della Commissione guidata dal presidente Luciano Violante. La relazione sul Casertano si concludeva con questi drammatici giudizi:”“La camorra è dentro la politica, dentro l’economia, dentro la vita pubblica e le esperienze collettive: la crescita e l’espansione dell’ultimo decennio rappresentano l’indicatore della trasformazione dell’organizzazione criminale. I clan camorristici trafficano in droga e armi, ma sono prevalentemente interessati alle gare per appalti di lavori pubblici e per la fornitura di servizi: dalla raccolta di rifiuti alle imprese di pulizia ai lavori per grandi infrastrutture, la presenza della camorra è vasta e puntuale [...]. Non ci sono soltanto omissioni, collusioni ed illeciti, vi è anche la corruzione del tessuto politico locale che attraverso il perseguimento di fonti illecite di finanziamento e l’imposizione di tangenti ha deteriorato l’ambiente e introdotto l’arbitrio e la inosservanza delle regole come tendenza dominante [...]. Nel corso delle indagini la Commissione si è trovata di fronte ad una classe dirigente amministrativa incurante dei confini della legalità, incline alla discrezionalità, al favoritismo, e anche all’affarismo più spregiudicato...” A fine ’94, il senatore indipendente del gruppo dei Progressisti Ferdinando Imposimato presenta un paio di interrogazioni al governo per denunciare forme di corruzione e subappalti affidati a ditte camorristiche nei grandi cantieri dell’alta velocità (Tav). Un decennio prima il magistrato Imposimato–che aveva istruito il processo Moro, nonché quelli per l’attentato al papa e alla banda della Magliana–era stato colpito da una vendetta trasversale, che gli aveva ammazzato il fratello Franco, sindacalista della Cgil. L’ordine era partito dal boss e finanziere della mafia siciliana Pippo Calò, che s’era rivolto a Lorenzo Nuvoletta. Questi aveva incaricato il consuocero Vincenzo Lubrano, boss di Pignataro Maggiore, che mandò due killer a eseguire il mandato. Componente della Commissione parlamentare antimafia, Imposimato viene incaricato dalla presidente Tiziana Parenti, che aveva lasciato la Procura di Milano per divenire deputata di Forza Italia, di preparare la relazione sulla situazione della criminalità in Campania. Nell’estate 1995 l’esperto magistrato presenta parti della relazione alla Commissione, dimostrando l’infiltrazione “imprese dei casalesi nei cantieri dell’alta velocità, grazie a subappalti assegnati in particolare dalle imprese Condotte e Icla, facenti parte del consorzio costituito qualche anno prima dall’Iri, presidente Romano Prodi. La società Condotte era stata presieduta dall’ex vicecomandante dell’Arma dei carabinieri Mario De Sena, indicato per questo incarico da Antonio Gava che lo designerà anche come sindaco di Nola; il generale sarà poi imputato per l’assegnazione di appalti alle imprese del clan Alfieri e arrestato nella primavera del ’93. L’impresa Icla si era illustrata nelle opere della ricostruzione, come in parte si è visto e si evince largamente dalla inchiesta parlamentare condotta dalla Commissione presieduta da Scalfaro. Queste infiltrazioni camorristiche nei lavori per l’alta velocità ripropongono quelle già avvenute per la costruzione della terza corsia dell’autostrada del Sole e, a giudizio del relatore, sembrano dimostrare che la Camorra non è più antagonista dello Stato, ma una sorta di controparte dello Stato, una forza riconosciuta, rispettata, efficiente e temuta. Essa controlla ancora oggi una parte del potere politico-istituzionale, gestisce le grandi opere pubbliche e assicura un certo ordine sociale. Lo Stato finisce così per finanziare la Camorra, potenziandola e legittimandola. Il flusso di denaro pubblico verso la Camorra si alimenta non più per effetto di un rapporto conflittuale, ma di un patto scellerato che ha per oggetto lo scambio tra denaro pubblico, ordine sindacale, tangenti e consenso sociale. I Giuliano potevano vantare una solida ascendenza camorristica, già nella rinomata categoria dei cocchieri ottocenteschi. Nel secondo dopoguerra, come si è accennato, Pio Vittorio aveva guidato i fratelli nella costruzione di un cospicuo impero criminale, che copriva tutti i settori più proficui e controllava completamente il quartiere centrale di Forcella. Non era solo un clan. Era una sorta di dominio territoriale, governato con le leggi del crimine e accompagnato da una diffusa partecipazione e adesione popolare. Non per caso l’erede Luigi, o Lovigino per i suoi successi amorosi, era anche chiamato ’o rre. Aveva però cominciato, opportunamente, dal basso la sua formazione criminale, con furti e rapine. Si era presto incontrato con la banda della Magliana, specializzandosi nell’uso della lancia termica ed entrando in contatto col banchiere Roberto Calvi e col potente mafioso Pippo Calò. Espanderà ulteriormente l’impero economico, fondato dal padre sul contrabbando delle sigarette, verso il narcotraffico con i rifornimenti assicurati da Umberto Ammaturo. A suo dire inventerà il totonero e poi espanderà le estorsioni ai grandi cantieri dei lavori pubblici negli anni ’80, praticherà largamente l’usura, controllerà il gioco d’azzardo, svilupperà il settore denso di avvenire della produzione e commercializzazione dei capi di abbigliamento contrassegnati coi principali marchi, le griffes contraffatte. Anzi, purtroppo, i segnali non sono affatto positivi. A fine aprile 2009 la Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore Pisanu, si è recata a Napoli per un’audizione del procuratore della Repubblica e della Direzione distrettuale antimafia. L’affermazione più impressionante espressa dal procuratore Giandomenico Lepore, in una conferenza stampa, riguarda il rapporto tra politica e camorra: a suo giudizio il 30% dei politici e amministratori napoletani possono considerarsi collusi con la camorra. La richiesta di una “corsia preferenziale” per i processi di camorra, specie in sede di appello, è stata motivata dai giudici della Dda con la necessità di evitare la prescrizione dei reati commessi proprio dai politici e dai “colletti bianchi” collusi. Intanto la Campania mantiene il poco apprezzabile primato degli enti pubblici commissariati e disciolti per l’infiltrazione e il condizionamento dei clan criminali: amministrazioni comunali, enti ospedalieri, consorzi di bacino per la raccolta dei rifiuti. A metà anni ’90 non ci sono più dubbi che la camorra abbia visto giusto: «la munnezza è oro». Ma la camorra non è sola in questo affare. Anzi è il braccio operativo dei grossi interessi economici e politici, collocati al Centro-Nord, che trovano la massima convenienza ad assegnare alla efficiente e affidabile camorra imprenditoriale dei casalesi un traffico così delicato, perfettamente realizzato e a prezzi stracciati. Significativo è anche il ruolo di mediazione tra gruppi economici, amministrazioni pubbliche e famiglie criminali svolto da esperti massoni, deviati e non, sempre presenti in questi snodi delicati della storia dell’Italia repubblicana. Questo forte e ramificato aggregato di interessi non si pone, né si è posto in altre occasioni, il problema di rispettare le leggi, di non commettere crimini. Unico obiettivo è il conseguimento del massimo profitto. Nel nuovo millennio la camorra è diventata famosa nel mondo. Ma soprattutto è forte e potente sul piano organizzativo ed economico. Da tempo si colloca sullo stesso piano di Cosa Nostra e della ’ndrangheta. Il numero degli affiliati è più o meno lo stesso: circa 6000 per ciascuna organizzazione. Gli utili della camorra sono calcolati in maniera approssimativa–l’unica possibile–sulla stessa linea di quelli percepiti da Cosa Nostra: quasi 13 miliardi di euro nel 2008. Una parziale conferma di questa ricchezza acquisita dalla moderna camorra, e anche della sua maggiore permeabilità, viene dalla quota elevata di beni sequestrati agli affiliati: quasi tre milioni di euro. Nel 1993 la Commissione parlamentare antimafia aveva stimato il fatturato annuo delle tre organizzazioni criminali del Sud intorno ai 20-24.000 miliardi di lire. Nel 2008 la valutazione dell’Eurispes (Istituto di studi politici e sociali) fa ascendere questo dato a circa 70 miliardi di euro. Sono dati tendenziali, non accertabili. Indicano comunque che, in un quindicennio, il fatturato delle principali mafie italiane si sarebbe all’incirca quintuplicato. È questa una impressionante conferma del crescente predominio del crimine organizzato nella gran parte del Mezzogiorno. Il più acuto studioso delle nuove forme assunte dal processo di ristrutturazione capitalistica affermatosi, grazie alla diffusione delle reti informatiche, in tutto il mondo alla fine del XX secolo, Manuel Castells, ha lanciato per tempo un messaggio drammatico, fondato sull’analisi diretta delle realtà in sviluppo nei diversi continenti, che andrebbe conosciuto e meditato più di quanto non sembri accadere. L’economia criminale globale sarà un fattore fondamentale nel XXI secolo, e la sua influenza economica, politica e culturale pervaderà tutte le sfere della vita. Il punto non è stabilire se le nostre società saranno in grado di eliminare le reti criminali, ma capire se le reti criminali finiranno o meno per controllare una parte sostanziale della nostra economia, delle nostre istituzioni e della nostra vita quotidiana.