20 luglio 2021

Gagliano Giuseppe Noterelle sulla genesi del capitalismo nella interpretazione di Giovanni Arrighi

La genesi storica del capitalismo. Come aveva sottolineato il grande storico francese Braudel al di sopra del livello della «vita materiale», cioè di un’economia di sopravvivenza, autoconsumo e baratto, e di quello dell’economia di mercato, è presente «la zona del contro-mercato [..,] il regno dell’arrangiarsi e della legge del più forte. Qui si colloca per eccellenza il campo del capitalismo, ieri come oggi, prima come dopo la rivoluzione industriale» . Cosa significa tutto ciò? Significa semplicemente che il potere statale e il capitalismo si identificano e che questa identificazione getta le basi della supremazia dell’Europa a partire dal 1500 . Stato e capitalismo Insomma sul piano storico l’apice del capitalismo si concretizza solo quando si identifica con lo Stato anzi quando è lo Stato. Durante la sua prima fase di sviluppo, che coincide con l’ascesa delle città-Stato italiane, a Venezia, Genova, Firenze, è l’élite del denaro che detiene il potere. Nell’Olanda del XVII secolo, l’aristocrazia dei reggenti governa secondo gli interessi e persino secondo le direttive degli uomini d’affari, mercanti o finanzieri come hanno ampiamente dimostrato gli storici e come illustrato da Giovanni Arrighi. Infatti con la rivoluzione industriale il capitalismo ha tratto grandi vantaggi dalla collaborazione con gli apparati statali, sia nella fase iniziale dell’industrializzazione, per esempio in termini di protezione dalla concorrenza straniera o di creazione delle condizioni sociali favorevoli all’instaurazione di rapporti di lavoro salariato,sia in quella più matura, si pensi ad esempio all’esplosiva miscela politica di riarmo navale e protezionismo agrario adottata dalla Germania guglielmina in conseguenza del compromesso interno tra grande borghesia industriale e aristocrazia terriera. Ma l’interesse naturalmente era anche da parte dello Stato il quale aveva-età-interesse a inglobare nelle sue reti di potere un’economia di tipo capitalista che garantiva un’efficienza senza precedenti nella produzione di ricchezza e nel progresso tecnologico. Come divenne sempre più evidente con l’industrializzazione della guerra a partire dalla metà del XIX secolo, disporre di un’industria moderna era un requisito indispensabile per difendere la propria sovranità. L’adozione del modo di produzione capitalista appariva come la via maestra per colmare la distanza dai Paesi guida. In altri termini attraverso la costruzione di un’economia di tipo capitalista, divenne una priorità nazionale per le società tradizionali che intendevano difendere la propria indipendenza, mentre per quelle che aspiravano ad accrescere il proprio potere o consolidare la propria egemonia, difendere ed offrire possibilità di espansione al proprio capitalismo diveniva un questione di priorità nazionale. Il capitalismo di Stato Ed anche i Paesi che rifiutavano il capitalismo come sistema sociale, furono costretti, sotto la sferza della sfida esterna, ad adottarne le ricette produttive, dando vita a un “capitalismo di Stato”, cioè di una sorta di sublimazione della visione braudeliana dell’essenza dell’economia capitalista. Esempi storici di alleanza tra Stato e capitalismo L’alleanza tra la logica territorialista degli Stati-nazione e quella capitalista è stata indagata a fondo da Giovanni Arrighi. Infatti nel saggio dello studioso Il Lungo XX Secolo, parlando dello scambio politico realizzato tra i banchieri Rothschild e la Gran Bretagna imperiale, Arrighi scriveva: «la protezione e il trattamento preferenziale che la rete finanziaria controllata dai Rothschild ricevette dal governo britannico ebbe il suo complemento nell’incorporazione di quella rete nell’apparato di potere grazie al quale la Gran Bretagna governava il mondo». E, qualche riga dopo: “L’aiuto era reciproco. Né i Rothschild, né i “nobili vecchi” [l’aristocrazia dei finanzieri genovesi “al servizio” dell’impero spagnolo] furono meri strumenti delle organizzazioni imperiali che essi “servivano”. Entrambi questi gruppi ristretti appartenevano a una più vasta cerchia di mercanti banchieri saltati sul carro di un’organizzazione territorialista, e che avevano abilmente trasformato l’espansione di quest’ultima in un potente motore dell’espansione di reti commerciali e finanziarie che essi stessi controllavano. Come opportunamente sottolinea Francesco Petrini nel saggio edito da Franco angeli “imperi del profitto“leggendo queste righe viene da chiedersi: cambiando i soggetti–sostituendo ai Rothschild i Rockefeller, per esempio–questo brano non potrebbe rappresentare una sintetica ma efficacissima descrizione dei rapporti tra Stati del “centro” del sistema e industria petrolifera nel corso del XX secolo? E in modo analogo potremmo leggere come una descrizione del funzionamento dei mercati petroliferi internazionali post 1945 le osservazioni di Braudel sul contro-mercato, «orientato a sbarazzarsi delle regole di quello tradizionale» e a sostituirle con un sistema di “scambi ineguali in cui la concorrenza–regola essenziale della cosiddetta economia di mercato–ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore ed il consumatore–solo lui conosce le condizioni “di mercato ai due poli della catena e dunque il profitto prevedibile–; in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato. Tra la produzione e il consumo, si frappongono, così, lunghe catene mercantili imposte dalla loro efficacia, soprattutto nelle forniture alle grandi città, che spinge le autorità a chiudere entrambi gli occhi, o almeno a chiuderne uno solo, allentando il controllo.La separazione tra consumatore e produttore operata dal mercante di cui parla Braudel, la si ritrova negli assetti petroliferi della parte centrale del XX secolo, quando le compagnie agivano come unico intermediario e avevano in pratica il monopolio della conoscenza delle «condizioni di mercato» e dei profitti. Le «lunghe catene mercantili» richiamano la struttura verticale integrata delle grandi aziende petrolifere che andavano dall’estrazione alla vendita al dettaglio. Le autorità che chiudono un occhio o anche tutti e due ricordano i governi dei Paesi consumatori disposti ad accettare prezzi arbitrari in cambio di rifornimenti certi. Sembra quindi che nel settore petrolifero venga allo scoperto, nella maniera più immediata ed evidente, quel tratto di identificazione tra Stato e capitale presente in modo evidente a fine anni Sessanta come la caratteristica saliente assunta dalle democrazie occidentali: dirigenti politici e governi hanno [considerato] l’impresa capitalista un elemento necessario, opportuno, pregiudiziale della loro società. Senza alcun dubbio, molti sono gli obiettivi tanto personali quanto pubblici che essi si pongono, ma tutti sono condizionati dalla loro adesione al sistema economico esistente e visti attraverso quel prisma deformante. Petrolio Saudita ed egemonia americana Nello specifico settore petrolifero-sottolinea opportunamente l’autore-vi era la necessità di mantenere il controllo delle risorse saudite in mani statunitensi, come strumento chiave dell’affermazione degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Ne discendeva, come corollario, la necessità di difendere le imprese private statunitensi che controllavano quelle risorse e di sostenere la loro espansione. Le compagnie private viste come vettore dell’interesse nazionale, quindi, a dispetto dello scandalo scoppiato solo pochi anni prima riguardo ai consolidati e duraturi legami della Jersey con il colosso della chimica tedesca, e pilastro del regime nazista, IG Farben. La morale del capitalismo Nelle parole del vicepresidente Henry Wallace, la Jersey Standard si era resa colpevole di «inganno», «dissimulazione» e «doppiezza»: «tra l’interesse degli Stati Uniti e il cartello con IG [Farben]» aveva scelto «la figura sinistra del cartello». Ma, come evidenziò il capo della divisione antitrust del Dipartimento della Giustizia, Thurman Arnold, il motivo era sempre il solito: «ottenere un mercato protetto» ed «eliminare la competizione indipendente» .Gli affari sono affari”, molto più che “right or wrong my country” . E d’altra parte la Repubblica veneziana non commerciava fosse con l’impero ottomano? Ritornando alla riflessione di Giovanni Arighi credo sia opportuno mettere in evidenza le caratteristiche specifiche del capitalismo genovese. Il ruolo della casa di San Giorgio nella nascita del capitalismo genovese Genova era all’avanguardia di questo movimento, e con la formazione della Casa di San Giorgio nel 1407 creò un’istituzione per il controllo delle finanze pubbliche da parte dei creditori privati la cui efficacia e sofisticazione, sotto questo aspetto, non furono eguagliate fin quando, quasi tre secoli dopo, fu fondata la Banca d’Inghilterra. Sin dal principio, tuttavia, lo sviluppo del capitalismo finanziario genovese mostrò alcune peculiarità. L’acquisizione del controllo delle finanze pubbliche genovesi da parte dei creditori privati uniti nella Casa di San Giorgio non segnò l’inizio dell’assunzione del governo della Repubblica da parte degli interessi capitalistici e l’avvio di una sempre crescente diversione dei capitali eccedenti verso le attività di formazione dello stato, come stava avvenendo, seppure con modalità differenti a Venezia e a Firenze. Al contrario, la costituzione della Casa di San Giorgio si limitò a istituzionalizzare un dualismo di potere e un’intrinseca instabilità politica che aveva caratterizzato a lungo, e che avrebbe continuato a caratterizzare lo stato genovese fino alle riforme costituzionali di Andrea Doria nel 1528. Secondo Jacques Heers, «tutta la storia del Quattrocento genovese è quella di un’ininterrotta crisi sociale e politica». Ma fu in questo stesso secolo di crisi sociale e politica permanente che Genova divenne la città in cui il capitalismo si sviluppò in tutte le sue forme, con tecniche appropriate e moderne; in cui il capitale [giunse a controllare] tutte le attività economiche e la banca [venne a occupare] un posto di primo piano. Dunque una città in cui si è formata rapidamente una classe di uomini d’affari ricchi e potenti, contemporaneamente grossi mercanti, banchieri e industriali: grandi capitalisti, nel senso più moderno del termine (Heers, 1984, p. 360). Da questo punto di vista, il capitalismo genovese nel XV secolo si stava sviluppando lungo un percorso che divergeva radicalmente da quello di tutte le altri grandi città-stato italiane. Le tipologie del capitalismo In varia misura e secondo modalità differenti, i capitalismi milanese, veneziano e fiorentino si stavano tutti sviluppando nella direzione della formazione dello stato e di strategie e di strutture di accumulazione del capitale sempre più «rigide». Il capitalismo genovese, al contrario, si stava muovendo nella direzione della formazione del mercato e di strategie e di strutture di accumulazione sempre più «flessibili». Questa eccezionalità aveva profonde radici in una combinazione unica di condizioni locali e sistemiche. A livello locale, le radici più profonde dell’eccezionalità di Genova risiedono nelle origini aristocratiche del suo capitalismo e nella precocità con la quale la città-stato genovese aveva annesso a sé la campagna circostante. Quando Venezia cominciò ad annettersi la «Terraferma», Milano la Lombardia, e Firenze la Toscana, Genova aveva da tempo esteso la sua giurisdizione su gran parte della Liguria, da Porto Venere a Monaco, e dal mare agli Appennini, come amava proclamare il governo genovese. L’istituzione della Casa di San Giorgio nel 1407 può dunque essere considerata come un momento decisivo nel processo di auto-organizzazione della classe capitalistica genovese, in una situazione di fondamentale impasse politica tra il potere del denaro e il potere delle armi. L’intensificazione della lotta concorrenziale tra le città-stato, gonfiando il debito pubblico di Genova, rafforzò il potere delle classi capitalistiche della città, ma non tanto da rovesciare il potere dell’aristocrazia terriera. Quest’ultima controllava i mezzi di violenza e le fonti della rendita fondiaria nella campagna circostante e continuava a partecipare ai processi di governo e a quelli economici della città se e quando ciò era nel suo interesse. Nondimeno, il fatto che il potere del denaro non fosse in grado di superare quello delle armi non significava che gli interessi capitalistici non fossero in grado di organizzarsi in modo più efficace per tener testa alla solidarietà dell’aristocrazia terriera. Fu questo in realtà l’obiettivo conseguito con l’incorporazione dei creditori privati del governo genovese nella Casa di San Giorgio. L’auto-organizzazione degli interessi capitalistici non fece nulla per stabilizzare la vita politica a Genova. La nascita del capitalismo bancario a Genova Fin dal 1339–quando una rivolta popolare contro il governo dell’aristocrazia aveva insediato un cittadino comune alla carica di doge–la guida del governo genovese era stata scelta sempre tra le file del «popolo», vale a dire tra i cittadini comuni. Nominalmente il doge era il capo militare dello stato genovese, ma il potere militare effettivo era rimasto saldamente nelle mani dell’aristocrazia terriera. Con la formazione della Casa di San Giorgio l’amministrazione delle entrate dello stato fu progressivamente assunta da questa organizzazione, cosicché l’impotenza militare del governo genovese si combinò con la perdita di potere in campo finanziario. Tecniche del capitalismo genovese Questa riforma monetaria diede nuovo impulso al continuo fiorire di strumenti e di tecniche monetarie. Se l’alta finanza moderna fu un’invenzione di Firenze, il vero luogo di nascita del capitalismo finanziario moderno in tutte le sue forme fu Genova alla metà del XV secolo. Le tecniche genovesi sono, fin dalla metà del Quattrocento, identiche a quelle che caratterizzano il capitalismo dell’era moderna. Assegni e lettere di cambio hanno uso corrente e il principio della girata è già presente; la maggior parte dei pagamenti si effettua in giroconto e la città dispone di una moneta bancaria stabile e comoda. È senz’altro per questo che si riduce la necessità di indebolire la moneta per aumentare i mezzi di pagamento. […] È un periodo di notevole stabilità monetaria dal momento che Genova, contrariamente alle regioni vicine meno evolute (la Francia soprattutto), dispone di una relativa abbondanza di strumenti di pagamento. Ha scoperto il segreto del regime capitalistico moderno che consiste nel «ritardare i pagamenti e i rimborsi e far sì che questi ritardi si sovrappongano continuamente gli uni agli altri»; un regime «che soccomberebbe se si volessero far quadrare simultaneamente tutti i conti» (Heers, 1983, pp. 80-81; corsivo aggiunto; citazioni da Bloch, 1981). Il commercio internazionale di Genova e il Mar Nero Né i disordini politici, né la relativa abbondanza di mezzi di pagamento, né, in verità, il virtuosismo tecnico del capitalismo genovese nel XV secolo, furono il risultato solo di condizioni locali. Al contrario, gli sviluppi a Genova furono modellati dai più ampi contesti sistemici italiano, europeo ed eurasiatico, che solo in piccola parte erano creazioni genovesi. La più importante tra queste condizioni sistemiche fu senza dubbio la disintegrazione del sistema commerciale eurasiatico al cui interno erano state edificate le fortune commerciali di Genova alla fine del XIII e agli inizi del XIV secolo. Queste fortune furono costruite soprattutto sulla competitività della rotta commerciale verso la Cina attraverso l’Asia centrale e sul successo con il quale l’iniziativa genovese riuscì a stabilire un controllo quasi monopolistico sullo «scalo» del Mar Nero di questa rotta. Finché l’impero mongolo assicurò l’accesso alla rotta dell’Asia centrale e la sua sicurezza, e finché Genova conservò la sua superiorità militare nella regione del Mar Nero, il commercio genovese prosperò e le dimensioni, la portata e il numero delle imprese genovesi aumentarono. Ma non appena il declino del potere dei mongoli rese la rotta commerciale attraverso l’Asia centrale meno competitiva e sicura, e l’ascesa del potere ottomano nell’Asia Minore indebolì e poi distrusse la supremazia genovese nella regione del Mar Nero, la ruota della fortuna girò. La prosperità del commercio genovese declinò e l’eccessivo apparato commerciale-militare si trovò improvvisamente di fronte alla necessità di una fondamentale ristrutturazione (Heers, 1961, pp. 366-372; Abu-Lughod, 1989, pp. 128-129). La guerra economica tra Genova e Venezia In risposta alla pressione sulle profittevoli opportunità commerciali lungo la rotta dell’Asia centrale, Genova cercò di rinsaldare rinsaldare il controllo sulle altre attività commerciali che si stavano sviluppando nella regione del Mar Nero: grano, legno, pelli e schiavi. Come osserva Heers (1961, p. 367), la guerra di Chioggia contro Venezia (1376-81) fu essenzialmente una guerra combattuta nel tentativo di imporre un monopolio commerciale nella regione del Mar Nero. Ma, come è noto, il tentativo fallì: Genova perse la guerra, e la pace di Torino sancì un controllo ancor più stretto da parte di Venezia sul commercio asiatico lungo la rotta meridionale. A partire da allora il potere di Genova nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale declinò rapidamente sotto l’impatto della veloce avanzata ottomana, mentre le possibilità di dirigere l’espansione più vicino alla madrepatria furono tenute sotto scacco dal potere catalano-aragonese nel Mediterraneo nordoccidentale. Genova e il commercio castigliano Ma in profondità, in risposta alla crisi, le reti del commercio e dell’accumulazione genovesi vennero radicalmente ristrutturate, in un modo che, con il tempo, trasformò i mercanti banchieri genovesi nella più potente classe capitalistica dell’Europa del XVI secolo. Come osserva John Elliott (1982, p. 38), mentre la guerra “tra lo stato genovese e la federazione catalano-aragonese fu condotta senza esito per gran parte del XV secolo, il capitale genovese ebbe la meglio sul capitale catalano in tutta la penisola iberica. La primissima vittoria fu conseguita nella sfera dell’alta finanza. I mercanti banchieri genovesi colsero prontamente le opportunità create dalla rovina delle principali banche private di Barcellona in occasione del crollo dei primi anni ottanta del XIV secolo per diventare i più importanti prestatori nella regione iberica, proprio come, su scala maggiore, i Medici avevano tratto vantaggio dalla rovina delle aziende dei Bardi e dei Peruzzi in occasione del crollo degli anni quaranta. Tuttavia, la vittoria che si rivelò davvero decisiva per le fortune genovesi fu l’acquisizione del controllo del commercio castigliano. Il progressivo aumento della produzione laniera della Castiglia aveva creato nuove possibilità commerciali che i catalani, impegnati a lottare su troppi fronti, non ebbero modo di cogliere. Furono invece i genovesi, installatisi a Cordova, a Cadice e a Siviglia, che strinsero una robusta alleanza con la Castiglia e si assicurarono il controllo delle esportazioni di lana dai porti meridionali della Spagna. Una volta posto saldamente piede nella penisola, i genovesi si dimostrarono abilissimi nell’insinuarsi in un punto strategico dopo l’altro all’interno dell’economia castigliana, preparando la strada alla loro futura partecipazione ai proficui traffici tra Siviglia e l’impero coloniale castigliano. Il predominio genovese ebbe un’influenza decisiva sulla storia spagnola nel Cinquecento. Se fossero stati i catalani e non i genovesi a vincere la lotta per entrare nel sistema commerciale castigliano, la storia della Spagna unita avrebbe avuto un corso profondamente diverso da quello che effettivamente ebbe (Elliott, 1982, p. 39). La ragione per la quale parliamo di un ciclo genovese, tuttavia, non sta nel fatto che in un frangente decisivo i catalani furono «impegnati a lottare su troppi fronti», poiché i genovesi lo furono persino su più fronti. In parte, per parafrasare l’affermazione di Abu-Lughod relativa a Venezia, la ragione è che la «scommessa» genovese sul commercio castigliano si rivelò fortunata. Ancor più che nel caso della «scommessa» veneziana sulla rotta commerciale dell’Asia meridionale, la sorte fu tuttavia solo un aspetto di minore importanza della storia genovese. L’aspetto più rilevante fu che i genovesi fecero le loro «scommesse» con molta attenzione e, soprattutto, puntarono su di esse con un repertorio di mezzi monetari e organizzativi a cui pochi, se non nessuno, dei loro concorrenti reali o potenziali potevano tener testa. In un certo senso, la matrice delle fortune della classe capitalistica genovese nel XVI secolo furono le sue «sventure» alla fine del XIV secolo e agli inizi del XV. Quando l’impero commerciale-militare che i genovesi avevano costruito nei secoli precedenti cominciò a disintegrarsi, e l’aristocrazia terriera genovese si ritirò dal commercio per «rifeudalizzarsi», la componente borghese della classe dei mercanti genovesi si trovò «afflitta» da una grave e cronica sproporzione tra, da un lato, le sue immense riserve di denaro, informazioni, conoscenze imprenditoriali e relazioni d’affari, e, dall’altro, le sue scarse capacità di proteggere se stessa e i suoi traffici in un mondo sempre più competitivo e ostile. La penisola iberica era il luogo che, per tre ragioni principali, offriva le migliori prospettive di una soluzione veloce e favorevole di questa fondamentale sproporzione. Il commercio genovese e il regno di Granada La parte meridionale della penisola iberica e il vicino Maghreb furono le regioni del Mediterraneo più profondamente «monopolizzate» dall’iniziativa genovese. Era del tutto naturale che le imprese genovesi reagissero alla crescente pressione in altre zone ripiegando su questa roccaforte. E fu proprio questo che fecero, trasformando, tra le altre cose, nella prima metà del XV secolo, l’ancora indipendente Regno di Granada–di gran lunga il centro agricolo-industriale più fiorente della regione–in «una vera e propria colonia economica genovese» (Heers, 1961, p. 477; 1979, cap. 7). In secondo luogo, per i genovesi la penisola iberica era non solo la roccaforte naturale su cui ripiegare, ma anche l’avamposto naturale da cui avanzare alla ricerca degli approvvigionamenti divenuti scarsi. Quando i veneziani rafforzarono il loro controllo sull’argento tedesco e sulle spezie asiatiche, per i genovesi divenne urgente, quanto meno, rafforzare il proprio controllo sull’oro africano portato ai porti del Maghreb lungo le carovaniere del Sahara e, possibilmente, trovare una rotta commerciale atlantica verso l’Oriente in sostituzione di quella attraverso l’Asia centrale, ormai persa. Da entrambi i punti di vista, una forte presenza nella penisola iberica era di enorme importanza strategica (Heers, 1961, pp. 68-69 e 473; 1979, capp. 4 e 8; Pannikar, 1953, p. 23). In terzo luogo, soprattutto, la penisola iberica era, per la classe capitalistica genovese, il luogo più promettente dove trovare ciò di cui essa aveva bisogno più di ogni altra cosa: efficienti e intraprendenti alleati «produttori di protezione» potenzialmente allettati dall’idea di assumere il ruolo svolto in precedenza dall’aristocrazia terriera genovese. Stato e capitalismo a Genova Più in particolare, riteniamo che l’espansione materiale del primo ciclo sistemico di accumulazione (quello genovese) fu favorita e organizzata da un agente dicotomico formato da una componente territorialista aristocratica (iberica)–che si specializzò nel fornire protezione e nella ricerca del potere–e da una componente capitalistica borghese (genovese)–che si specializzò nella compravendita di merci e nella ricerca del profitto. Queste specializzazioni si integravano a vicenda, e i loro reciproci benefici unirono–e, finché durarono, mantennero unite–le due componenti eterogenee dell’agente dell’espansione in un rapporto di scambio politico nel quale, da un lato, la ricerca del potere della componente territorialista creava vantaggiose occasioni commerciali per la componente capitalistica e, dall’altro, la ricerca del profitto da parte di quest’ultima rafforzava l’efficacia e l’efficienza dell’apparato produttore di protezione della componente territorialista. Genova, l’Africa e l’oro Certo, la ricerca del profitto aveva a lungo spronato i genovesi a esplorare la costa dell’Africa occidentale. Fu alla fine del XIII secolo, quando il valore dell’oro era particolarmente alto, […] che, da Genova, i fratelli Vivaldi tentarono di circumnavigare l’Africa. Essi si smarrirono, ma i navigatori inviati alla loro ricerca dall’imprenditore che li aveva finanziati, Teodisio d’Oria, riscoprirono le antiche «isole della felicità», le Canarie. […] Dopo il 1350 questi tentativi cessarono, poiché il rapporto tra oro e argento tornò a un livello più normale, e l’attività economica in Europa si ridusse; quando, intorno al 1450, questo rapporto prese a salire nuovamente e il valore dell’oro aumentò, le spedizioni oceaniche e africane ricominciarono (Vilar, 1971, pp. 47-48). Fu così che i capitalisti genovesi patrocinarono un’ambiziosa spedizione attraverso il Sahara nel 1447 e due viaggi lungo la costa africana occidentale negli anni cinquanta–tutti alla ricerca di un accesso diretto all’oro africano. Il finanziamento della politica Nel 1519 il potere del capitale genovese era già tale da consentirgli di svolgere un ruolo decisivo nell’elezione di Carlo V, poi re di Spagna, al titolo di imperatore a spese del re francese, Francesco I. In questa occasione, sostiene Ehrenberg (1985, p. 74), i principi elettori tedeschi «non avrebbero mai scelto Carlo se i Fugger non avessero sostenuto la sua causa con il proprio denaro, e ancor di più con il loro potente credito». Ma l’operazione non avrebbe mai avuto successo se i mercanti banchieri genovesi non avessero mobilitato le proprie lettere di cambio in modo da consentire ai Fugger e ai Welser di avere a disposizione con breve preavviso e in molti luoghi diversi il denaro necessario ad acquistare i voti dei principi tedeschi (Boyer-Xambeau, Deleplace e Guard, 1991, p. 26). Nel corso dei successivi quarant’anni le fortune dei Fugger aumentarono in modo spettacolare, per poi declinare rapidamente in una palude di crediti inesigibili, di deprezzamento delle risorse e di crescente indebitamento. La centralità dei Fugger nell’alta finanza europea in questo periodo era simile a quella dei Medici un secolo prima, sebbene le basi papali delle attività dei Medici fossero di gran lunga più solide delle basi imperiali delle attività dei Fugger. Questa centralità ha indotto alcuni storici a parlare dell’epoca di Carlo V come dell’« epoca dei Fugger». Se tutto ciò che si intende indicare con questa espressione è la centralità nell’alta finanza, allora la designazione è accurata. Ma le principali tendenze dell’economia-mondo capitalistica in questo periodo non si stavano rivelando nella sfera dell’alta finanza. Dai Fugger ai genovesi Dietro le quinte, il potere meno visibile dei genovesi continuò ad aumentare attraverso il consolidamento e l’ulteriore espansione delle reti commerciali sistemiche, fino a che, a tempo debito, essi si sentirono abbastanza forti da cercare di assicurarsi il controllo delle finanze della Spagna imperiale a spese degli esausti Fugger e degli altri finanzieri asburgici che operavano fuori da Anversa. Quello che infine spossò i Fugger e spianò la strada al tentativo dei genovesi fu soprattutto la limitatezza spaziale e funzionale della base delle loro fortune commerciali, una limitatezza che fece di essi i servitori piuttosto che i padroni delle incessanti difficoltà finanziarie di Carlo V. Sin dal principio, le loro attività combinarono il commercio dell’argento e del rame con i prestiti ai principi tedeschi. La loro strategia di accumulazione era abbastanza semplice: i profitti che derivavano dal commercio dei metalli erano investiti in prestiti ai principi in cambio di diritti o proprietà minerarie, che a loro volta li mettevano in condizione di espandere il loro commercio di metalli e la massa di profitti che poteva essere trasformata in nuovi prestiti e in nuovi diritti e proprietà minerarie, e così via in una catena espansionistica «senza fine». Poco dopo il 1519, tuttavia, la congiuntura favorevole che aveva fatto la fortuna dei mercanti di Augusta cominciò rapidamente a declinare. Nel corso dei successivi dieci anni circa, l’arrivo in Europa dell’offerta spagnola di argento americano dirottò verso Siviglia buona parte del commercio portoghese di spezie asiatiche e, quel che è peggio, iniziò a estromettere l’argento tedesco da tutti i mercati europei, portando a un vero e proprio blocco della produzione nelle miniere tedesche dopo il 1535 (Braudel, 1981-82, vol. III, p. 133). La congiuntura avversa indusse i Fugger a invischiarsi sempre più fortemente nel finanziamento delle interminabili guerre del loro alleato-padrone imperiale. Secondo un agente dei Welsers, alla metà degli anni quaranta del XVI secolo «i Fugger non volevano più saperne di prestiti imperiali; eppure si erano lasciati coinvolgere già così profondamente che fu loro necessario molto tempo per poter ricuperare il proprio denaro». Nei primi anni cinquanta, Anton Fugger si lagnò ripetutamente con il suo agente, Matteo Oertel, del fatto che «nessuna soluzione quanto ai nostri crediti proverrà dalla Corte. Invero, in questi tempi difficili essi hanno molto altro da fare, ma ciò è comunque rischioso; sono situazioni fastidiose». A dispetto di queste lamentele, i Fugger si lasciarono trascinare in nuovi e maggiori prestiti nel vano tentativo di indurre Carlo V a rimborsare i debiti in essere o, almeno, a pagare gli interessi. Ed è quanto fecero essi stessi, indebitandosi in modo sempre più massiccio e oneroso, sul mercato finanziario di Anversa (Ehrenberg, 1985, pp. 101 e 109-114). La cosa dunque andò avanti. I Fugger non si videro restituire i propri anticipi; al contrario, [nel 1556-57] furono costretti, nel giro di un anno e mezzo, a concedere prestiti alla casa [degli Asburgo] per un ammontare mai raggiunto in passato in un arco temporale così breve. Erasso [segretario dell’Imperatore] li prosciugò completamente; e per tutto questo essi non ottennero alcun ringraziamento, né da lui né dal suo principale (Ehrenberg, 1985, p. 114). Dopo aver estorto ai Fugger tutto il possibile, negli anni seguenti il 1557 gli Asburgo cessarono di far ricorso a essi per i prestiti necessari, e a questo scopo fecero affidamento sempre più esclusivamente sui genovesi, che «erano stati in grado di rendersi indispensabili alla corte spagnola, laddove i Fugger, vincolati dal loro passato e dall’assenza di iniziativa, rimasero legati alle imprese spagnole e ai vecchi mercati, il che impedì loro di servirsi dei nuovi centri del commercio e della finanza che si stavano allora sviluppando» (Ehrenberg, 1985, p. 119). Sebbene al suo culmine il potere dei Fugger somigliasse superficialmente a quello dei Medici di un secolo prima, la loro storia era dunque una replica delle vicissitudini dei Bardi e dei Peruzzi di due secoli prima. I veri Medici del XVI secolo furono un gruppo ristretto di mercanti banchieri genovesi, i cosiddetti «nobili vecchi», che, nel mezzo della crisi, abbandonarono il commercio per diventare i banchieri del governo della Spagna imperiale nella quasi assoluta certezza che ciò avrebbe arrecato loro più benefici che svantaggi. Questo spostamento dei «nobili vecchi» dal commercio all’alta finanza è considerato da Braudel l’inizio di quello che, seguendo Ehrenberg e Felipe Ruiz Martín, egli definisce il «secolo dei genovesi» (1557-1627). Il ruolo dei banchieri genovesi nel finanziamento della politica Nel corso di questi settant’anni, i mercanti banchieri genovesi esercitarono sulle finanze europee un dominio paragonabile a quello esercitato nel XX secolo dalla Banca internazionale di Basilea, «un dominio tanto discreto e sofisticato da sfuggire per molto tempo all’osservazione degli storici» (Braudel, 1981-82, vol. III, pp. 140-141). Questo dominio venne esercitato grazie all’organizzazione, al controllo e alla gestione di un legame invisibile tra l’offerta più che mai sovrabbondante di capitale monetario da parte dell’Italia settentrionale e le costanti difficoltà finanziarie della Spagna imperiale. Grazie al potente sistema delle fiere di Piacenza, i capitali delle città italiane sono attratti verso Genova. E una folla di piccoli prestatori, genovesi e non, affidano i loro risparmi ai banchieri in cambio di una modica retribuzione. C’è anche un legame permanente tra le finanze spagnole e l’economia della penisola italiana. I finanzieri genovesi che crearono, gestirono e beneficiarono di questo legame sistemico tra il potere iberico e il denaro italiano furono essi stessi colpiti da una serie di crisi–negli anni 1575, 1596, 1607, 1627 e 1647–tutte di origini spagnole. A differenza di ciò che comportarono per i Fugger, tuttavia, queste crisi non causarono la loro rovina poiché essi riuscirono sempre a trasferire perdite e difficoltà su clienti o rivali. Naturalmente, il dominio genovese sull’alta finanza europea alla fine sfumò, e poi cessò del tutto. Ma i frutti di quel dominio rimasero intatti, e più di due secoli dopo trovarono un nuovo settore di investimenti nell’unificazione politica ed economica dell’Italia, della quale il capitale finanziario genovese fu uno dei principali fautori e beneficiari (Braudel, 1981-82, vol. III, pp. 144 e 151-155). Come ha sottolineato Ehrenberg, «non furono le miniere d’argento di Potosí, quanto le fiere di scambio genovesi a far sì che Filippo II potesse perseguire, decennio dopo decennio, la sua politica di potere mondiale» (citato in Kriedte, 1983, p. 47).

 
Ricerca
      
dal    al